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SOMMARIO: 1. Le decisioni in materia di diritto penale sostanziale: il codice penale 1.1. Disciplina della prescrizione – 1.2. Cause di non punibilità – 2. La legislazione penale speciale - 2.1. Giudice di pace – 2.2. Immigrazione – 2.3. Circolazione stradale – 2.4. Privacy - 3. Le decisioni in materia di diritto penale processuale – 3.1. Giudice di pace. - 3.2. Prove documentali.1. Le decisioni in materia di diritto penale sostanziale: il codice penale1.1. Disciplina della prescrizioneCon l’ordinanza n. 5 del 12 gennaio 2009, depositata il 16 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, dell'art. 158 cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra, per il delitto di cui all'art. 640 cod. pen., dal giorno di commissione del reato anziché dal giorno in cui la persona abbia contezza della truffa perpetrata ai suoi danni; dell'art. 158 cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra, per il reato continuato, dal giorno di consumazione di ciascun reato anziché dal giorno di cessazione della continuazione; dell'art. 158 cod. pen., nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione decorra, per i reati perseguibili a querela, dal giorno di commissione di ciascun reato anziché dalla cessazione del reato continuato.La Corte ha rilevato che in tali casi la pronuncia che viene sollecitata, mirando a introdurre un diverso dies a quo per il decorso del termine di prescrizione, esorbita dai poteri spettanti alla Corte, a ciò ostando il principio della riserva di legge di cui all'art. 25, secondo comma, Cost., che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni applicabili, inibendo alla Corte di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, tra i quali rientrano quelli attinenti alla prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi. Inoltre, il principio di legalità preclude alla Corte di pronunciare sentenze additive "in malam partem" del tipo di quella chiesta dal rimettente (sulla inammissibilità di pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie penali o comunque di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, v., citate, ex plurimis, sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008).Con l’ordinanza n. 34 del 26 gennaio 2009, depositata il 6 febbraio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibili o infondate una serie di questioni di legittimità costituzionale coinvolgenti essenzialmente gli artt. 157 e 161, comma secondo cod. pen. come introdotti dall’art. 6, commi primo e quarto, della L. n. 251 del 2005, in relazione agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, 27 e 79 Cost. Le diverse autorità remittenti avevano contestato la legittimità costituzionale della nuova disciplina di prescrizione dei reati in quanto contemplante un sistema di computo dei termini collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell’imputato, prevedendo un più lungo termine di prescrizione in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o professionali.La Corte, dopo avere riaffermato che sono inammissibili pronunce il cui effetto possa essere, come nella specie (caratterizzata dalla possibile introduzione di un più lungo termine massimo di prescrizione), quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti o comunque di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità (sentenze n. 324 del 2008 e n. 394 del 2006 e ord. n.65 del 2008), si è soffermata in particolare sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 161 comma secondo, cod. pen., sollevata sul presupposto di una ingiustificabile disparità di trattamento tra imputati recidivi e non recidivi, essendo solo i primi soggetti, in forza del riformulato art. 161 cit. in tema di interruzione, ad un più lungo termine prescrizionale determinato appunto non già dalla gravità oggettiva del fatto bensì dallo status soggettivo dell’imputato. La Corte, tuttavia, ricordando la giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui l’aumento di pena previsto in caso di recidiva reiterata infraquinquennale, prima ancora di determinare un allungamento del termine massimo per effetto di atti interruttivi, è tale da incidere già sul termine ordinario di prescrizione ex art. 157, comma secondo, cod. pen., essendo la recidiva in questione annoverabile tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale, e precisato pertanto che, sulla base di tale criterio, il Tribunale remittente procedeva in ordine ad un reato il cui termine ordinario di prescrizione non era ancora maturato, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione per irrilevanza della stessa.L’interesse di tale pronuncia risiede dunque nell’avere la Corte ripreso l’orientamento della Corte di cassazione, affermativo, della natura di circostanza aggravante ad effetto speciale della recidiva reiterata (Cass., sez. II, 9 aprile 2008, n. 19565, P.G. in proc. Rinallo, rv. 240409), sì da comportare, rispetto agli imputati cui tale recidiva non sia contestata, un duplice effetto peggiorativo in ordine al termine prescrizionale, più lungo sia con riferimento al termine ordinario, sia, in caso di atti interruttivi, con riferimento al termine prolungato.1.2. Cause di non punibilitàCon la sentenza n. 75 dell’11 marzo 2009, depositata il 20 marzo 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale parziale dell'art. 384, comma secondo, cod. pen. nella parte in cui lo stesso non prevede l'esclusione della punibilità per false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria, fornite da chi non avrebbe potuto essere obbligato a renderle o comunque a rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato – a norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. pen. – a quello, commesso da altri, cui le dichiarazioni stesse si riferiscono.La Corte ha ritenuto manifestamente irragionevole l’esclusione, poiché tra il delitto di false dichiarazioni rese al pubblico ministero e quello di favoreggiamento dichiarativo (commesso con la condotta di false o reticenti informazioni rese alla polizia giudiziaria) sussiste una sostanziale omogeneità del bene protetto consistente nella funzionalità di ciascuna fase rispetto agli scopi propri nei quali le esigenze investigative e quelle della ricerca della verità si sommano “sicché gli artt. 378, 371-bis e 372 cod. pen. finiscono per presidiare ciascuno una fase distinta del procedimento e del processo…”; ha evidenziato inoltre “l'identità delle condotte materiali (mendacio o reticenza) che nelle diverse ipotesi possono risultare rilevanti???.Ha, poi, sottolineato come tale irrazionale esclusione si apprezzi ancor di più ove si consideri “l'evoluzione normativa del sistema processuale che….non soltanto ha statuito la sussistenza, in capo al soggetto chiamato dalla polizia giudiziaria a rendere dichiarazioni, degli stessi obblighi previsti per chi è chiamato a deporre innanzi al pubblico ministero (e per il testimone), cioè dell'obbligo di rispondere e di dire il vero, salvo il limite della possibilità di un suo coinvolgimento, ma ha portato ad una sostanziale equiparazione, anche sotto il profilo della valenza processuale, delle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria a quelle rese al pubblico ministero”.Orbene, ha concluso la Corte, “la convergenza di disciplina processuale rende del tutto irragionevole il diverso regime giuridico riscontrabile tra le corrispondenti condotte di mendacio o reticenza, qualora esse siano riconducibili alle ipotesi di reato previste, rispettivamente, dall'art. 371-bis e dall'art. 378 cod. pen. (limitatamente alla condotta di false o reticenti informazioni assunte dalla polizia giudiziaria), non essendo applicabile alla seconda ipotesi (per mancata previsione normativa) la citata causa di non punibilità nel caso di assunzione d'informazioni ad opera della polizia giudiziaria, ancorché non sia configurabile in capo al dichiarante un obbligo di renderle o comunque di rispondere in quanto persona indagata per reato probatoriamente collegato, a norma dell'art. 371, comma 2, lettera b), cod. proc. pen., a quello (commesso da altri) cui le dichiarazioni stesse si riferiscono”.Sulla questione va in particolare ricordato il precedente intervento delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. Un., 22 febbraio 2007, n. 21832, Morea, rv. 236371) in ordine alla configurabilità del delitto di favoreggiamento personale nei confronti dell'acquirente di modiche quantità di sostanza stupefacente per uso personale che, sentito come persona informata dei fatti, si rifiuti di fornire alla P.G. informazioni sulle persone da cui ha ricevuto la droga, ferma restando, in tale ipotesi, l'applicabilità dell'esimente prevista dall'art. 384, comma primo, cod. pen. se, in concreto, le informazioni richieste possano determinare un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, consistente anche nell'applicazione delle misure previste dall'art.75 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309.2. La legislazione penale speciale2.1. Giudice di paceCon l’ordinanza n. 3 del 12 gennaio 2009, depositata il 16 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, 52, 63 e 64 del D.lgs. 28 agosto 2000, n. 274, sollevata in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 32 della Costituzione.La Corte ha evidenziato come il rimettente, affermando la rilevanza della questione senza risolvere il quesito preliminare relativo alla qualificazione del fatto reato in rapporto all'elemento psicologico - laddove la sussistenza del dolo eventuale condurrebbe a qualificare la condotta contestata come reato di lesioni personali dolose, come tale sottratto alla competenza del giudice di pace ed al relativo trattamento sanzionatorio -, abbia reso soltanto ipotetica la rilevanza della questione.Ha aggiunto inoltre che lo stesso remittente, chiedendo per il reato in esame (lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale) una pronuncia tale da ripristinare il meccanismo sanzionatorio applicabile prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 274 del 2000, ha invocato un intervento additivo e di sistema in malam partem non consentito alla Corte in forza del principio della riserva di legge in materia penale.Né, ha proseguito la Corte, può indurre a diverso avviso il richiamo che il rimettente ha fatto dei principi di cui alla sentenza n. 394 del 2006 - che ha ritenuto suscettibili di sindacato le norme penali di favore, ossia quelle che stabiliscono, per determinate ipotesi, un trattamento più favorevole di quello risultante dall'applicazione di norme generali -, non vertendosi, in tale specifica ipotesi.2.2. ImmigrazioneIn tema di immigrazione, con la sentenza n. 21 del 26 gennaio 2009, depositata il 30 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 1, del D.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall'art. 11, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189, censurato, in riferimento agli artt. 25 e 35, quarto comma, nella parte in cui punisce chi compie atti diretti a procurare l'ingresso illegale in altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. Quanto alla denunciata violazione del principio di riserva di legge, esso non esclude che il legislatore possa introdurre nella descrizione del fatto incriminato il riferimento ad elementi "esterni" al precetto, con funzione integratrice dello stesso, elementi che possono consistere anche in un richiamo a norme di ordinamenti stranieri. Nella specie, ove una normativa extranazionale concorre all'identificazione della condotta criminosa, sono rispettate tanto la condizione che sia il legislatore nazionale a individuare il nucleo di disvalore della condotta (favoreggiamento dell'ingresso contra ius di un soggetto in un altro Stato), quanto la condizione che risultino adeguatamente identificate le norme straniere chiamate ad integrare il precetto. Anche il principio di determinatezza non può dirsi leso, poiché è immediatamente percepibile quale sia la condotta repressa, intendendosi colpire chi agevoli in qualunque modo un'altra persona a varcare i confini dialtro Stato in violazione delle norme che in esso regolano l'ingresso degli stranieri. Insussistente è, infine, il contrasto con l'art. 35, quarto comma, Cost., posto che la libertà di emigrazione è riconosciuta dal precetto costituzionale con salvezza degli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, fra essi rientrando quelli di rispetto della legislazione del Paese di accoglienza, nel quadro di accordi di cooperazione internazionale.Ancora, con l’ordinanza n. 41 del 9 febbraio 2009, depositata il 13 febbraio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma quinto quater, del D.Lgs. n. 286 del 1998. L’autorità remittente, chiamata a giudicare di un cittadino extracomunitario già espulso per non avere chiesto il provvedimento di soggiorno nel termine prescritto e successivamente ritrovato nel territorio dello Stato, aveva in particolare prospettato che detta norma, non contenente, a differenza della previsione del comma quinto ter, la clausola dell’assenza di un giustificato motivo alla base della condotta illecita, collidesse, in relazione ad una situazione di ingiustificata disparità di trattamento e al necessario finalismo rieducativo della pena, con gli artt. 3 e 27 Cost.La Corte ha tuttavia evidenziato la eterogeneità tra le condotte, da una parte, del reingresso dello straniero già espulso nel territorio dello Stato e, dall’altra, del suo indebito trattenimento nel territorio dello Stato pur a fronte dell’ordine di allontanamento, rimarcando la mera natura omissiva del primo reato e, di contro, la valenza di vanificazione dell’attività amministrativa e giudiziale del secondo. Di qui, sempre secondo la Corte, la non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di non attribuire rilievo a circostanze oggettive o soggettive diverse dalle esimenti di carattere generale del codice, tanto più dovendosi tenere conto da un lato della possibilità, per lo straniero espulso che voglia rientrare, di ottenere, in presenza di particolari motivi, la relativa autorizzazione e, dall’altro, della verosimile integrazione, in caso di rientro non autorizzato bensì sorretto da ragioni di particolare cogenza, delle cause di giustificazione tipizzate con conseguente esclusione della rilevanza penale della condotta.Con l’ordinanza n. 67 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., dell'art. 14, comma quinto quinquies, D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, come sostituito dall'art. 1, comma sesto, d.l. 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modifiche, in L. 12 novembre 2004, n. 271, nella parte in cui lo stesso prevede l'arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all'art. 14, comma quinto ter, del medesimo decreto legislativo.La Corte – evidenziando che un’identica questione è stata dichiarata infondata con la sentenza n. 236 del 2008, sul rilievo della non manifesta irragionevolezza della previsione censurata – ha ribadito che, sotto il profilo della comparazione con fattispecie sottoposte ad identico trattamento, l'art. 380, comma secondo, cod. proc. pen. prevede, in attuazione del criterio «qualitativo» enunciato dalla legge 16 febbraio 1987, n. 81, l'arresto obbligatorio in flagranza anche con riguardo ad ipotesi di delitto tentato per le quali, in forza della diminuzione di pena stabilita dall'art. 56 del codice penale, i valori edittali risultano molto vicini a quelli previsti dall'art. 14, comma quinto ter, del D.Lgs. n. 286 del 1998 e che, per altro verso, deve escludersi l'intrinseca contraddittorietà della norma censurata, posto che la trasformazione della fattispecie di «indebito trattenimento» da contravvenzione in delitto, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni, attuata dalla legge n. 271 del 2004, ha reso possibile l'applicazione di misure cautelari personali nei confronti del soggetto arrestato per il reato in esame, eliminando la contraddizione riscontrata dalla stessa Corte nella sentenza n. 223 del 2004.2.3. Circolazione stradale.Con la sentenza n. 57 del 23 febbraio 2009, depositata il 27 febbraio 2009, la Corte ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 186, commi secondo e settimo, del D.Lgs. n. 285 del 1992, nel testo sostituito rispettivamente dalle lettere a) e c) del comma primo dell’art. 5 del D.L. n. 117 del 2007, convertito, con modificazioni, nella legge 2 ottobre 2007, n. 160, sollevate con riferimento agli artt. 3 e 27, comma terzo, Cost.Il Gip del Tribunale di Milano, chiamato ad emettere decreto penale nei confronti di imputato colto alla guida di autovettura in stato di ebbrezza sintomatico in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, rilevava come nelle ipotesi, come quella di specie, caratterizzate da una serie di dati sintomatici indicativi di una grave alterazione psicofisica se non di una vera e propria ubriachezza, l’applicazione, necessitata, ex art. 2, quarto comma, cod. pen., della più favorevole, rispetto al pregresso regime, e più lieve sanzione prevista dalla lett. a) del d.l. n. 117 del 2007, prevista per le ipotesi di minore allarme sociale, in luogo di quella della lett. c), sicuramente più adeguata, venisse a concretare un vulnus al canone di ragionevolezza consacrato dall’art. 3 Cost. nonché al trattamento 5rieducativo di cui all’art. 27 Cost. presupponente la necessaria adeguatezza tra entità della sanzione e disvalore del fatto.La Corte, dopo avere ritenuto l’ininfluenza, sulla questione sottoposta al proprio esame, delle modifiche apportate, ai commi secondo e settimo dell’art. 186 Cod. della Strada, dalle lettere b) e d) del comma primo dell’art. 4 del D.L. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge 24 luglio 2008 n. 125 (come noto, infatti, la lettera c) del comma secondo è stata rivisitata nel senso di un inasprimento sanzionatorio mentre al rifiuto di sottoporsi agli accertamenti tecnici di cui al comma settimo è stata nuovamente attribuita rilevanza penale mediante la sanzionabilità attraverso le pene di cui al suddetto comma secondo lett. c), ha tuttavia dichiarato inammissibili le questioni sollevate.Infatti, entrambi i richiesti interventi avrebbero natura in malam partem e manipolativa e, dunque, non consentita alla Corte ostandovi il principio della riserva di legge (vedi Corte cost. n.394 del 2006 e nn. 324 e 413 del 2008), giacché, con riguardo al primo profilo, si vorrebbe ottenere l’applicazione del trattamento sanzionatorio più grave della lettera c) in luogo di quella, più lieve, della lett. a) e, con riguardo al secondo, si mirerebbe a conseguire, in anticipo sulle determinazioni successivamente assunte dal legislatore (che, infatti, ha nuovamente penalizzato la fattispecie del comma settimo), una “rinnovata criminalizzazione” della fattispecie.2.4. PrivacyCon l’ordinanza n. 66 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte ha dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento all'art. 15 Cost., dell'art. 137, comma secondo, D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) nella parte in cui lo stesso non prevede il consenso dell'interessato al trattamento dei dati relativi alla corrispondenza epistolare «quando esso venga effettuato nell'esercizio dell'attività giornalistica».La Corte ha ritenuto, che le carenze dell'ordinanza di rimessione in ordine alla descrizione dei fatti oggetto del giudizio principale precludessero l’esercizio del necessario controllo in relazione alla rilevanza della questione (mancata descrizione delle condotte contestate nel capo di imputazione; assenza di indicazioni circa i dati oggetto della divulgazione, né delle modalità con cui la giornalista fosse venuta a conoscenza delle lettere, ovvero se queste fossero state rese pubbliche); in secondo luogo, il rimettente, chiedendo alla Corte l'introduzione - quale ulteriore requisito per la legittimità del trattamento dei dati personali a fini giornalistici - del consenso dell'interessato, invocherebbe un intervento, estensivo dell'ambito dei fatti penalmente rilevanti a fattispecie attualmente non previste, sicuramente precluso alla Corte dal principio della riserva di legge, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., non potendo la Corte adottare una pronuncia additiva in malam partem in materia penale.3. Le decisioni in materia di diritto penale processuale.3.1. Giudice di paceCon l’ordinanza n. 15 del 14 gennaio 2009, depositata il 23 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile, per carenza di adeguata descrizione della concreta fattispecie sottoposta a giudizio e per difetto di motivazione con riguardo alla rilevanza della questione nel procedimento a quo ed alle ragioni del contrasto tra la disciplina censurata ed i parametri costituzionali invocati, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, censurato in riferimento agli articoli 3, 24, secondo comma, e 111, terzo comma, della Costituzione, nella parte in cui non prevede, a pena di nullità, che la citazione a giudizio avanti al giudice di pace debba contenere l'avviso per l'imputato della possibilità di determinare l'estinzione del reato, secondo le disposizioni dell'art. 35 dello stesso decreto legislativo n. 274 del 2000, mediante condotte riparatorie antecedenti all'udienza di comparizione.Sempre con riguardo al processo penale innanzi al giudice di pace, con l’ordinanza n. 42 del 9 febbraio 2009, depositata il 13 febbraio 2009, la Corte ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 36 del D.Lgs. n. 274 del 2000 come modificato dall’art. 9, comma secondo, della L. n. 46 del 2006. I giudici remittenti, tra i quali la Corte di cassazione, avevano dubitato della conformità agli artt. 3 e 111 Cost. della disposizione che non consente al Pubblico Ministero di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate dal giudice di pace: da un lato tale preclusione, se posta a confronto con la possibilità per l’imputato di appellare le sentenze di condanna (irrogatrici o di una pena di specie diversa da quella pecuniaria o di una pena pecuniaria laddove impugnato anche il capo relativo alla condanna al risarcimento del danno) concreterebbe quella medesima irragionevole dissimetria di poteri delle parti già posta alla base della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 93 cod. proc. pen. come modificato dall’art. 1 della L. n. 46 del 2006; dall’altro si porrebbe in contraddizione con la persistente possibilità, per il Pubblico Ministero, di appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria, ovvero, in altri termini, le sentenze addirittura, sia pure solo in parte, recettive delle istanze dell’accusa.La Corte, ricordata la precedente sentenza n. 298 del 2008 di dichiarazione di infondatezza della questione, ha ribadito, da un lato, che la limitazione del potere di appello del Pubblico Ministero concerne un circoscritto gruppo di figure criminose (quelle, appunto, devolute alla competenza del giudice di pace) di minore gravità e di ridotto allarme sociale, in buona parte espressive di conflitti a carattere interpersonale e, dall’altro, che le regole del processo avanti al giudice di pace sono tutte improntate a finalità di snellezza e semplificazione. Ha aggiunto che, nell’assetto precedente la modifica apportata con la legge n.46 del 2006, l’imputato era, quanto ai poteri di impugnazione, sfavorito rispetto al Pubblico Ministero, potendo egli sìappellare, a differenza della parte pubblica, le sentenze di condanna a pena pecuniaria, ma solo ove venisse congiuntamente impugnato il capo di condanna al risarcimento del danno.Di qui, secondo la Corte, l’infondatezza dell’assunto proposto dai giudici remittenti, essendo la limitazione del potere di impugnazione del Pubblico Ministero sufficientemente giustificato (sì da non dar luogo al difetto di manifesta irragionevolezza denunciato) sia dalla opportunità di evitare un secondo giudizio di merito nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati “di fascia bassa” sia dall’ottica di riequilibrare un assetto di poteri impugnatori precedentemente, semmai, sbilanciato a favore della parte pubblica.Ancora, con la sentenza n. 64 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente inammissibile, per difetto di rilevanza, la questione di costituzionalità dell'art. 7 del D.Lgs. n. 274 del 2000, nonché infondata la questione di costituzionalità dell'art. 6, comma 1, del citato decreto, per presunta lesione degli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost.La Corte ha osservato che la soluzione adottata dal legislatore con il D.Lgs. n. 274 del 2000 e innescata dal criterio di delega legislativa enunciato all'art. 17, lettera i), della Legge n.468 del 1999 (nel segno di una riduzione delle ipotesi di connessione nel procedimento avanti il giudice di pace e del favor separationis), può in effetti presentare margini di opinabilità, in quanto idonea a dar luogo in qualche caso a moltiplicazioni di procedimenti presso giudici diversi tali, specie in rapporto a determinate vicende, da apparire discutibili nella prospettiva di un eventuale diverso equilibrio degli interessi in gioco. Tuttavia, ha aggiunto la Corte, simili valutazioni “restano sul piano delle critiche di politica criminale e giudiziaria, estranee all'area del sindacato della Corte, senza poter debordare in autentici vizi di costituzionalità”.Infine, con l’ordinanza n. 68 del 25 febbraio 2009, depositata il 5 marzo 2009, la Corte Costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 25 e 111 Cost., dell'art. 6, comma primo, D.Lgs. 28 agosto 2000, n. 274 nella parte in cui lo stesso non prevede, fra le ipotesi di connessione tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice, quella dei reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre.La Corte – premessa l’impropria commistione, da parte dell’autorità remittente, tra l'istituto della competenza per connessione e quello della riunione dei processi – ha evidenziato come il giudice a quo trasformi la fattispecie in questione in una ipotesi di connessione cosiddetta eterogenea (atta a determinare, cioè, uno spostamento della competenza per materia dal giudice di pace al giudice superiore), operazione che – secondo la Corte - non può ritenersi in alcun modo imposta dai parametri costituzionali evocati. A tal proposito, sottolinea come la dedotta violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento fra gli imputati, è insussistente perché “né davanti al giudice di pace, né davanti ai giudici superiori è prevista la possibilità di procedere alla riunione di processi relativi a reati commessi da più persone in danno reciproco, in deroga alle ordinarie regole sulla competenza per materia o per territorio”. La Corte ha giudicato, poi, “inconferente” il richiamo al principio di parità delle parti processuali (art. 111 Cost.), in quanto tale parità non risulta in alcun modo alterata dalla norma censurata “la quale spiega i suoi effetti, alla stessa maniera, nei confronti di ognuna delle parti”. Infine, qualifica come “priva di consistenza” la censura di violazione del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25 Cost.), in quanto la garanzia del giudice naturale è rispettata quando la regola di competenza sia prefissata rispetto all'insorgere della controversia, e non è invece utilizzabile per sindacare la scelta del legislatore che si esprime nella fissazione di quella regola.3.2. Prove documentaliCon la sentenza n. 29 del 19 novembre 2008, depositata il 26 gennaio 2009, la Corte costituzionale ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all’art. 238 bis cod. proc. pen. nella parte in cui consente l’acquisizione dibattimentale delle sentenze divenute irrevocabili ai fini della prova del fatto in esse accertato, e, quindi, oltre i casi e i limiti di efficacia probatoria di cui agli artt. 234 e 236 cod. proc. pen.L’autorità remittente sosteneva che tale norma, introdotta, dall’art. 7 della L. n. 356 del 1992, di conversione del d.l. n. 306 del 1992 con la evidente finalità di semplificare la prova dei fatti (giacchè, in virtù di essa, è appunto consentita l’acquisizione delle sentenze divenute irrevocabili “ai fini della prova del fatto in esse accertato”) si sarebbe posta in 8contrasto con l’art. 111, quarto comma, Cost., secondo cui “il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”.Il giudice remittente sottolineava che la possibilità, derivante da detta acquisizione, che il fatto documentato nella sentenza irrevocabile (sia pure da sottoporre, secondo quanto disposto sempre dell’art. 238 bis, ad una valutazione necessariamente fondata, mediante il richiamo all’art.192, comma terzo, anche su altri elementi di prova confermativi), potesse transitare nel compendio probatorio di altro processo veniva a confliggere con il principio di formazione della prova nel contraddittorio delle parti, unicamente derogabile nei casi, di tassativa elencazione, di cui al quinto comma del medesimo articolo; fornendo infatti detta sentenza non già una rappresentazione del fatto documentato (come nelle ipotesi degli artt. 234 e 236 cod. proc. pen.) bensì una valutazione dello stesso, doveva escludersi la possibilità per le parti del processo “ricevente” di confrontarsi su tale fonte probatoria con conseguente obliterazione del principio del contraddittorio.La Corte ha ritenuto manifestamente infondata la questione.Dopo avere precisato che la disposizione in oggetto, nonostante l’occasio legis (ovvero la necessità di contrastare più efficacemente la criminalità organizzata), è applicabile in relazione a qualunque reato (potendo inoltre l’acquisizione essere sollecitata anche dall’imputato), la Corte ricorda di avere già in precedenza avuto modo di sottolineare la funzione della norma non già nel senso, contrastante con il principio di assoluta autonomia delle regiudicande, di risoluzione, per il tramite dell’acquisizione, di ogni aspetto del thema devoluto alla cognizione del giudice ricevente in termini cogenti e vincolanti, bensì nel senso di ausilio ai fini della regolazione del modo di valutazione della pronuncia irrevocabile resa in separato giudizio, “in una logica di economia nella raccolta del materiale utile alla decisione” (vedi, sul punto, l’ordinanza n. 159 del 1996).Ciò posto, la Corte sottolinea in primo luogo, in difformità dall’avviso del giudice remittente, secondo cui già la sola acquisizione della sentenza, indipendentemente dalla valutazione del suo contenuto, rappresenterebbe un vulnus al contraddittorio, che “acquisizione del dato probatorio e sua valutazione ed utilizzazione sono momenti certamente distinti, ma altrettanto certamente non autonomi”, come dimostrato del resto da numerose disposizioni del codice che, nel prevedere l’acquisizione di dati probatori esterni, ne indicano le condizioni e le finalità (tra le altre, gli stessi artt. 236 e 238 comma quarto).In secondo luogo ripercorre gli approdi della giurisprudenza di legittimità in tema di limiti di utilizzabilità della sentenza, essendo stata affermata la possibilità di impiego della sentenza ai fini della prova dei fatti intesi come eventi storici esterni al processo (vedi Cass., sez. VI, 4 dicembre 2003, n. 1269/04, Brambilla ed altro, rv. 229996).Tali postulati fornirebbero, dunque, le coordinate per una corretta individuazione del rapporto tra norma oggetto dello scrutinio e principio del contraddittorio una volta considerato che la portata di tale principio va individuata in considerazione della specificità dei mezzi di prova: in relazione alla peculiare specifica natura della sentenza irrevocabile, che non sarebbe né documento in senso proprio né prova orale, “il principio del contraddittorio trova il suo naturale momento di esplicazione non nell’atto dell’acquisizione, nel quale, del resto, non sarebbe ipotizzabile alcun contraddittorio, se non in ordine all’an dell’acquisizione, ma in quello successivo della valutazione e utilizzazione” restando libere le parti, una volta acquisita la sentenza, “di indirizzare la critica che si andrà a svolgere, in contraddittorio, in funzione delle rispettive esigenze”, e restando ferma la necessità di “tenere conto del tipo di procedimento (ordinario,abbreviato, con accettazione della pena) in cui la sentenza acquisita è stata pronunciata e, quindi, anche del contraddittorio in esso svoltosi”.Il libero apprezzamento, inoltre, dell’apporto probatorio discendente da diverso processo irrevocabilmente definito si collegherebbe logicamente alla scomparsa, nel nuovo sistema processuale, della pregiudiziale penale e, considerato unitamente alla necessità di riscontri confermativi, rappresenterebbe “garanzia sufficiente del rispetto delle prerogative dell’imputato alla cui salvaguardia il parametro costituzionale invocato è stato posto”.La sentenza contribuisce dunque a confermare, peraltro a non breve distanza dalla entrata in vigore delle norme sul giusto processo, i termini della compatibilità tra la disposizione dell’art. 238-bis e il principio del contraddittorio in senso oggettivo, già ritenuta a suo tempo con la sentenza n.159 del 1996 e tuttavia posta fortemente in discussione da buona parte della dottrina.Va del resto ricordato che la stessa Corte di Cassazione è da tempo implicitamente attestata su tale complessiva linea, sia in relazione alle finalità della norma, che è quella di "non disperdere elementi conoscitivi acquisiti in provvedimenti che hanno comunque acquistato autorità di cosa giudicata, fermo restando il principio del libero convincimento del giudice" (Cass., Sez. II, 19 maggio 1994, n. 6755, Rapanà, rv. 198107), ovvero quella di "evitare di dover provare di volta in volta un fatto già accertato" (Cass., Sez.VI, 2 marzo 1998, n. 3396, Calisse ed altri, rv. 210326), sia in relazione al libero apprezzamento del contenuto della sentenza da parte del giudice ricevente e all’esigenza di preservazione del contraddittorio.Tuttavia, intervenendo in una fattispecie nella quale la sentenza irrevocabile era stata acquisita ai sensi dell’art. 238 bis anche al fine di utilizzare quali prove dichiarazioni rese da testimoni ufficiali di polizia giudiziaria in ordine a quanto loro riferito da terze persone (dichiarazioni che, dunque, alla luce del novellato testo dell’art. 195, comma quarto, cod. proc. pen., non avrebbero potuto essere rese nel procedimento “ricevente”, iniziato successivamente alla modifica operata con la legge n. 63 del 2001), la S.C. ha affermato che l’art. 238 bis “deve essere interpretato in modo da non porsi in contrasto né con l’articolo 111 della Costituzione né con l’articolo 238 cod. proc. pen.” giacché, diversamente, “si eluderebbe ilprincipio del contraddittorio sancito dall’articolo 111 della Costituzione, ammettendone una deroga non espressamente annoverabile tra quelle previste dalla Costituzione” (Cass. sez. III, 13 gennaio 2009, n. 8823, Cafarella, rv. 242767/8).